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Giornata internazionale della salute mentale: rompere i pregiudizi sul lavoro

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Abbiamo deciso di celebrare la “Giornata internazionale della salute mentale” ponendo in luce aspetti legati al mondo del lavoro, ma consapevoli di vivere e operare in un contesto territoriale ancora poco attento rispetto a queste tematiche.

Il nostro paese in più occasioni ha mostrato di trattare il tema del benessere psico-fisico con eccessiva superficialità. Un limite culturale non può e non deve tradursi in un limite reale per i membri di una comunità.

Educare alla consapevolezza del benessere mentale dovrebbe partire dal sistema scolastico per poi essere acquisito come buona prassi nei contesti lavorativi. Sono ancora molte le disparità in questo senso e sempre più spesso ci scontriamo con resistenze e retaggi culturali che classificano come “meno importanti” le patologie mentali rispetto ad altre.  Parlarne aiuta a rompere i pregiudizi.

Nella maggior parte dei casi le relazioni lavorative si trasformano in macigni e potremmo definirle “tossiche” nel momento in cui non riusciamo a tracciare una linea di confine in grado di delimitarne il potere d’azione e l’influenza che queste possono avere nella nostra vita.

Vi è mai capitato di entrare in ufficio e di avvertire lo stress di un collega che magari in quel preciso istante è sotto pressione e inconsapevolmente “scarica” la sua tensione sugli altri?

A tal proposito ci si chiede spesso: “Come faccio a mantenere un mio equilibrio? Come faccio ad essere comunque in grado di ascoltare, consigliare senza caricarmi di questo peso?”

Impresa non facile considerando che la gestione dei rapporti lavorativi spesso si rivela ancora più complessa di quella della dimensione privata. A maggior ragione se consideriamo che la connessione tra persone che si relazionano quotidianamente comporta inevitabilmente un’influenza sul loro comportamento. Allo stesso tempo dovremmo chiederci se è proprio a noi che compete la “fase di ascolto e supporto” o sarebbe meglio ristabilire ruoli e priorità anche nel rapporto con i colleghi.

Dovremmo partire dal presupposto che la costruzione del nostro equilibrio richieda un vero e proprio percorso che troppo spesso è dato per scontato. Dimenticarsi di noi e delle nostre priorità non migliora la nostra produttività sul luogo di lavoro né tantomeno la qualità delle nostre relazioni. Ancora una volta ci ritroviamo a citare la pandemia e tutti i cambiamenti che ha portato nelle nostre vite negli ultimi due anni: è come se il nostro baricentro si fosse totalmente spostato a favore di quelle poche attività che ci hanno fatto “sentire vivi” in un contesto di vuoto e assoluta immobilità.

Ecco che le infinite call di lavoro e gli scambi di messaggi in merito a problemi da risolvere e soluzioni da trovare “nel minor tempo possibile” sono diventati il leitmotiv di intere generazioni di lavoratori che si sono ritrovati perennemente connessi. Questo caotico scambio, che ancora oggi per molti continua a viaggiare su diversi dispositivi con la differenza che alla dimensione “iperconnessa” si sia unita anche quella reale, rischia di complicare ancora di più le cose. Complicazioni che sono già visibili in diversi ambiti. La pandemia ci ha lasciato in eredità lavoratori stressati (definiti spesso in “burn-out”) che hanno indubbiamente sviluppato lodevoli capacità multi-tasking e un grandissimo attaccamento alla propria azienda, perdendo di vista sé stessi e il proprio benessere.

Basterà dare un’occhiata ai dati pubblicati online dai vari istituti di ricerca per capire che oggi i manager e i lavoratori italiani sono più attenti ai valori della condivisione, dell’inclusione, dell’apertura al contributo del singolo, chiamato a una maggiore iniziativa. Segnale positivo ma non basta se poi le parole non sono accompagnate da azioni concrete. Secondo i dati emersi da una ricerca di BVA Doxa sul benessere psicologico dei lavoratori italiani, l’85% delle persone intervistate considera il proprio benessere psicologico generale correlato al proprio benessere sul lavoro e viceversa. La quota di persone che dichiara di soffrire di frequenti problemi di ansia e insonnia per motivi legati al lavoro, invece, sfiora il 50%. Il 92% delle lavoratrici e dei lavoratori ritiene importante che l’azienda si occupi attivamente del “benessere psicologico” dei propri dipendenti. Tuttavia, il 42% del campione intervistato ritiene inefficaci le iniziative promosse dalla propria azienda per aumentare il livello di benessere (fonte: ansa.it).

Quante aziende oggi sono davvero attente al benessere dei propri dipendenti e collaboratori e forniscono loro gli strumenti giusti per poter migliorare e ristabilire il proprio work life balance?

La risposta è abbastanza scontata: in Campania le realtà aziendali di questo tipo si contano sulle dita di una mano (volendo essere ottimisti). Preoccuparci di una migliore gestione del tempo, di formare i nostri dipendenti per acquisire le famigerate “soft skills” sono tutte azioni che lasciano il tempo che trovano, se poi ci dimentichiamo che le risorse sono prima di tutto esseri umani: soggetti vulnerabili perennemente esposti a pressioni esterne. Se proprio volessimo leggere lo stesso messaggio in un’ottica cinica e orientata alla produttività aziendale: persone più felici sono anche lavoratori più produttivi.

Vi siete mai soffermati sul disagio di chi è consapevole dei propri limiti e di eventuali patologie mentali e ciononostante concentra le sue energie nel riuscire a costruire una carriera lavorativa?

Magari proprio il vostro collega che di nascosto criticate per un atteggiamento distratto o una dimenticanza è in preda ad un forte periodo di stress, un momento complicato e sta letteralmente scalando montagne per mantenere un equilibrio tra lavoro e relazioni con gli altri.

La prossima volta che vi verrà in mente la frase: “Fatti vedere da uno bravo non ci sarà un sorrisino ironico stretto tra i denti piuttosto un momento di riflessione e di comprensione verso l’altro che potrebbe aiutarci a migliorare come persone e come colleghi.

Dare un peso diverso alle parole potrebbe essere un ottimo punto di partenza, perché quello che ci rende migliori si chiama empatia non ironia, né superficialità.

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